#3 Funghi di sopravvivenza
Un viaggio in Bosnia, approvvigionamenti di guerra e libri di cucina
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Fungotropìa è la newsletter appassionata di funghi che viaggia nel sottobosco come un micelio trovando connessioni. E’ scritta da me, Camilla Mazzanti, senza pretesa di scientificità ma con curiosa voglia di scoperta. Per ora arriva due volte al mese, ma solo quando vuole, come i funghi, non quando li cerchiamo con ostinazione ma quando meno ce li aspettiamo, come dei tesori.
“In un giorno d'estate a Sarajevo, Sejda mi ha mostrato come trovare e sradicare i denti di leone, come sbucciarli e tagliarli, e insieme abbiamo bevuto una tazza di caffè di tarassaco. Era leggermente più scuro del vero caffè, con la stessa schiuma in superficie e una simile morbida amarezza sulla lingua. Aveva lo stesso aspetto di quello vero e, sebbene avesse un odore e un sapore diverso, lo percepivamo come quello vero. Più del caffè in sé, erano la macinatura, il versarlo e l'attendere che il sedimento si depositasse, ad evocare un momento guadagnato e fuori dal tempo. Tenendo la piccola tazza di fildžan in una mano, potevo immaginare come un'erbaccia amara potesse essere trasformata in un simbolo di orgoglio, e strappare l'erba potesse rappresentare un atto di sfida.”
da MOLD Magazine: Issue 02, “A Seat at the Table” (trad. mia)
Decidere di intraprendere un viaggio nei Balcani suscita sempre una domanda: dove sono esattamente i Balcani? Siamo ancora in Europa, sì, ma verso Est. D’accordo, ma a est di chi? Dove comincia esattamente quello che noi chiamiamo Est? Siamo tutti a est di qualcuno, e quindi, cosa significa essere ad Est? Per cercare di capirlo io e la mia metà decidiamo mesi fa che non vogliamo catapultarci direttamente con un volo aereo a Belgrado. È da lì che dove dovrebbe partire effettivamente il tour che abbiamo in programma, ma noi vogliamo arrivarci piano piano, via terra, per assaporare quello spirito che speriamo di scoprire dettaglio per dettaglio, a mano a mano che il paesaggio cambia, attraversando così Slovenia, Croazia e poi finalmente Serbia e Bosnia.
Nonostante il nostro viaggio sia equivalso solo a sfiorare lievemente la superficie di questi posti (conoscerli e viverli è indubbiamente ben altra cosa), quello che traspare attraversando questi paesi dell’ex Jugoslavia è un sottile velo di non detti e di squarci su un passato difficile e complesso.
Seppur conscia della storia recente di queste terre, che per una bambina degli anni ‘80 è rappresentata da vaghi ricordi al telegiornale, stralci di conversazioni e qualche immagine, io ammetto che delle guerre balcaniche conoscevo ben poco. Certo, sapevo che sotto Tito la Jugoslavia aveva vissuto il suo periodo di grande fulgore, ma cosa fosse successo dopo, con il suo sgretolarsi, era qualcosa di estremamente nebuloso nella mia testa.
E non è stato facile nemmeno avere informazioni da chi in queste zone ci vive. Durante il nostro viaggio, Marko, la nostra guida serba locale, si è limitato a dire “per noi serbi è normale vivere una guerra ogni 15 anni”. Lo ha detto con quel misto di sfacciataggine che non avrei saputo dire se fosse frutto di educazione al nazionalismo o piuttosto di una certa sperfottìa, che porta a parlare in maniera quasi beffarda di un argomento sperando che questo non si ripresenti a breve.
Daniela invece, che ci ha guidato a Sarajevo, alla domanda su cosa significasse vivere prima e dopo la Jugoslavia ha semplicemente risposto: “ho avuto una infanzia serena”. Ma è stata molto più generosa quando abbiamo insistito: “il problema è stato quello che è successo dopo, io sono sposata con un musulmano, la nostra è una famiglia mista, nessuno dopo la fine del Comunismo pensava che sarebbe durata tra di noi, ci hanno persino intervistato sul giornale. In più io ho un cognome serbo, dopo la guerra nessuno voleva darmi un lavoro”.
Quando poi una volta rientrata, ho raccontato del mio viaggio a una mia collega di lavoro, macedone di nascita, ma croata e serba per origini famigliari, lei ha allargato le braccia, ha sorrriso con i suoi bellissimi occhi chiari e mi ha detto, con una frase che sintetizza tutto: “io SONO la Jugoslavia”.
Nessuno parla volentieri apertamente di ciò che è successo, fa solo poche allusioni a quel passato dal quale sembra volersi affrancare nonostante testimonianze silenziose che di certo non si possono ignorare.
Ma cosa c’entra tutto ciò con i funghi ti chiederai a questo punto? Niente, o meglio, c’entra tanto, ma in una maniera che mai avrei pensato.
Nel mio immaginario di inesperta di funghi ho sempre sentito associare i Balcani, e più in generale l’est Europa, al mondo fungino. Il famigerato e generico “Est” mi veniva di solito descritto come una sorta di luogo mitologico in cui i funghi crescono molto più abbondanti che da noi, in mezzo a foreste dipinte sempre come verdissime e sconfinate. Sarà vero?
Così, tornata a casa, mi sono chiesta se ci fosse davvero qualche storia sul mondo fungino legata a questi posti. Ebbene sì, una storia l’ho trovata eccome. Una storia però che parla di assedi, di fame e di carestia. Una storia che racconta dello spirito di un popolo colpito nella propria identità e nel proprio intimo, assediato da un nemico che non si aspettava di conoscere come tale. Una storia recente a dire la verità e che ben poco ha a che fare con il mondo del fantastico e del favolistico a cui di solito pensiamo quando si parla di funghi.
Niente folklore e niente favole, quindi. Oggi Fungotropìa parla di sussistenza alimentare in guerra. E le guerre in questione sono proprio quelle balcaniche alle soglie del Duemila (1992-1995).
Approvvigionamenti di guerra
La storia che porto stavolta nel mio “cestino” metaforico l’ho scoperta grazie ad uno studio pubblicato dall’Università di Sarajevo, il cui titolo è “Wild Mushrooms and Lichens used as Human Food for Survival in War Conditions”, una ricerca condotta nei primi anni Duemila (2002-2005) da uno dei più grandi ecologisti della ex Jugoslavia, Sulejman Redžić, botanico e professore universitario.
Si tratta di uno studio che testimonia quali fossero le condizioni dei civili e dei guerriglieri rimasti isolati o accerchiati dalle milizie serbo-bosniache durante l’assedio della città di Sarajevo e delle altre cittadine nella parte orientale della Bosnia. Sono stati collezionati dati sulla raccolta e utilizzo di funghi selvatici e licheni e sul loro effetto sulla sopravvivenza di coloro che ne hanno fatto uso.
Leggendolo, anche se, certo, il tono è quello di un pamphlet scientifico, mi è sembrato di sentirsi rialzare il volume su quelle immagini che mi hanno lasciato senza fiato a Sarajevo quest’estate. I segni dei colpi di arma da fuoco, ancora ben visibili sui palazzi, le pareti crivellate sul “viale dei Cecchini” e sui grattacieli dell’ex villaggio olimpico, quello costruito per le celebri Olimpiadi invernali dell’84, sono testimoni di una guerra di cui la città sembra quasi non voler più parlare pur di andare avanti, passare oltre. Ma che ancora sono lì.
La vita in Jugoslavia non era come quella nel resto del blocco orientale. Per decenni, lo stato socialista guidato da Tito si era assicurato la prosperità in un delicato equilibrio tra le contrapposte potenze della Guerra Fredda, corteggiando aiuti, commercio e prestiti da entrambe le parti. Gli jugoslavi andavano in vacanza all'estero e guardavano televisori a colori in appartamenti moderni. Era una sorta di comunismo con un plus, il meglio di entrambi i mondi, tenuto a galla però dal debito estero. Così, nel giro di due anni dalla caduta del Muro di Berlino, un quarto della popolazione perse il lavoro, e quasi altrettanti non ricevettero più lo stipendio. Con una velocità sconcertante quindi, la fede nello Stato crollò ed emersero violenti movimenti nazionalisti che divisero la Jugoslavia per etnia e religione.
Nel 1992, mentre il paese si disgregava affondando nella guerra civile, le forze nazionaliste serbe attaccarono Sarajevo, la piccola e multietnica capitale della repubblica bosniaca della Jugoslavia. Ma gli assalitori, troppo deboli per prendere la città, la sfinirono tagliando acqua, gas ed elettricità, barricarono le strade e puntarono le loro armi sulla sua popolazione. L'assedio sarebbe durato quasi quattro anni.
In una situazione di questo tipo, le scorte interne di cibo si affievolivano sempre di più fino anche ad esaurirsi e diventava fondamentale trovare risorse alimentari alternative di qualsiasi sorta. In certe circostanze pur di riempire gli stomaci vuoti e doloranti per i crampi della fame si mangiava di tutto. Già nei primi mesi del conflitto la popolazione era arrivata a perdere fino a 20/30 kg di massa corporea, la malnutrizione era una condizione diffusa ed era quindi diventato fondamentale per la sopravvivenza cercare di procurarsi ogni tipo di sostanza nutritiva reperendolo anche dall’ambiente naturale circostante. È così che arriviamo al punto che ci interessa: il sostentamento fu garantito anche grazie al mondo naturale, alla raccolta di erbe spontanee1, ma anche di funghi e licheni. Sì persino questi: i licheni.
A questo proposito, durante l’assedio di Sarajevo, una delle figure di riferimento è stato lo stesso professor Sulejman Redžić (1953-2014)2 autore dello studio che ho citato prima. Redžić era infatti un botanico che per tutto il periodo di isolamento della città ha condotto una trasmissione televisiva grazie alla quale forniva informazioni alla popolazione (o meglio, agli spettatori) su come integrare la scarsa dieta raccogliendo piante in città e dagli ambienti naturali circostanti.
Nel corso dei secoli le conoscenze sul cibo selvatico, in particolare su funghi e licheni, affermava Redžić, sono state progressivamente abbandonate e poi dimenticate, ma in circostanze come quelle che stavano vivendo i bosniaci quelle nozioni ancestrali stavano tornando ad essere preziose, e diventavano un valore da tramandare per far fronte al bisogno e alla scarsità alimentare.
Se quindi in un primo momento c’era diffidenza verso alcuni alimenti selvatici, funghi in primis, pian piano il ricorrere a questi garantì il nutrimento necessario alla sopravvivenza.
Mi sarebbe piaciuto riuscire a trovare qualche informazione in più su questa trasmissione di Redžić, ma non sono riuscita a scovare altro che una citazione in un paio di scritti che commentano il suo lavoro e un libro, dal titolo “The book of Thistle” di Noëlle Janackzewska (traducibile come “il libro dei cardi”), UWA publishing, 2017, che cita la sua trasmissione ma nulla più.
In città soprattutto, si dovettero rispolverare anche le vecchie modalità di cottura degli alimenti e di conservazione dei cibi e ripristinare sistemi economici che si basavano su una economia di scala più piccola, come il semplice baratto.
Se a Sarajevo si utilizzava davvero di tutto per nutrirsi, con anche grossi effetti in termini di salute, la situazione era diversa nelle campagne, dove utilizzare prodotti della natura era cosa da tutti i giorni. Anche lì comunque le riserve finirono e ben presto si arrivò alle stesse difficoltà.
Questa fame portò tutti, sia civili che i militari, a doversi ingegnare per trovare in qualche modo risorse di cibo disponibili. Lo studio di Redžić si riferisce però soprattutto all’area di Podrinje e della città di Zepa, anch’essa sotto assedio per tre anni e mezzo. Le condizioni ambientali di quella zona sono piuttosto selvagge e inaccessibili: nelle vicinanze c'è il canyon del fiume Drina, circondato da rocce calcaree, la cui profondità arriva fino a 1300 metri. Si tratta di un’area che nasconde un gran numero di grotte, riparo perfetto per evitare i nemici vivendo di erbe spontanee e funghi selvatici.
I dati di questa ricerca sono stati raccolti attraverso il metodo dell’intervista etno-botanica (o etno-micologica potremmo dire). Sono state infatti contattate 51 persone adulte (32 uomini e 19 donne), tutte di etnia bosniaco-musulmana con una media di 50 anni di età, tra cui anche ex soldati che si erano uniti alla guerriglia di resistenza, ed è stato chiesto loro di indicare a quali generi e specie fossero ricorsi per sopravvivere. È così che si è arrivati a catalogare 25 specie di funghi selvatici e 7 di licheni, con le relative informazioni riguardo aree di raccolta, modi di conservazione e utilizzo.
Per quel che riguardava i funghi, questi venivano consumati nelle maniere più semplici, di solito nell’immediato, appena colti. Da freschi infatti venivano fritti, grigliati o anche bolliti, per essere mangiati in stufati o zuppe, mentre il fungo essiccato consentiva di poter avere delle risorse anche nel tempo. I licheni invece erano preparati ammollandoli nell’acqua fredda per una notte e poi bolliti e aggiunti anch’essi a porridge, stufati, zuppe o altre preparazioni, mentre seccati erano conservati e utilizzati per poi fare il pane. I più utilizzati erano l’Evernia prunastri (chiamata anche “muschio di quercia”) e l’Usnea sp. (nota volgarmente come “barba di bosco”, per la sua forma filamentosa che pende dai rami degli alberi).
I funghi più consumati erano i prataioli (Agaricus campestris), i porcini (Boletus edulis), e i galletti (Cantharellus sp.), ma non solo. Però come abbiamo visto c’era una iniziale paura verso il mondo fungino, che era ritenuto pericoloso. Una cosa di cui non avevo idea è che di solito si prova una diffidenza generale verso le specie che hanno un determinato aspetto, nonostante ci si trovi di fronte a buoni commestibili. Ad esempio, la dimensione del corpo fruttifero può fare la differenza: le persone si dimostrano poco propense a consumare funghi troppi grandi, tipo la Calvatia gigantea o l’Agaricus macrosporus perché pensano possano essere velenosi. Per non parlare dell’influenza del colore dei funghi sulle credenze popolari riguardo la commestibilità. Non si tratta naturalmente di idee corrette, ma in generale le convinzioni volevano che funghi più chiari fossero meno appetibili.
Le conoscenze pregresse di un certo tipo di fungo e la sua distribuzione sul territorio erano anch’essi fattori determinanti sul suo utilizzo. Lo studio fa notare ad esempio che anche se il Coprinus comatus è commestibile, dato che si trova in aree remote e non particolarmente conosciute, era meno consumato rispetto al Lactarius piperatus, di qualità molto inferiore al Coprinus, ma più diffuso e quindi più noto.
Per quel che riguarda le sette specie di licheni consumate, il loro utilizzo era per lo più legato alla necessità di tritarli per utilizzarli come farina proprio per la mancanza di ingredienti per la produzione di pane durante l’assedio3. La gente in effetti aveva meno timore di utilizzare i licheni, li considerava in genere come qualcosa di poco pericoloso e li recuperava ovunque, in più questi diventavano davvero una risorsa durante l’inverno, anche per la loro facile digeribilità (soprattutto rispetto ad altri alimenti di fortuna) e il loro importante quantitativo di antiossidanti, e proprietà medicinali come nel caso del Lichene islandico4. In ogni caso sia dei funghi che dei licheni era utilizzata ogni loro parte, senza sprechi, soprattutto negli esemplari giovani.
L’aspetto più interessante emerso da questa analisi è però il fatto che in nessuno dei casi fortunatamente si siano registrate intossicazioni né morti a seguito del consumo di questi funghi, vale a dire che le conoscenze tradizionali sono servite allo scopo. C’era una attenzione massima alla sopravvivenza: le conoscenze degli “anziani” avevano espletato il loro compito.
Tra l’altro, leggendo questo scritto, ho avuto la conferma che davvero questa zona d’Europa, proprio per le sue caratteristiche climatiche, è ricca tanto di funghi quanto di licheni, soprattutto per la sua aria pulita.
In più i funghi selvatici si sono rivelati una fonte proteica alternativa, una sorta di “carne della foresta” (cit. forest meat) ricca di amminoacidi, una bassa percentuale di grasso e relativamente alte quantità di carboidrati e fibre così come di vitamine e minerali. Coloro che, soprattutto nelle campagne, o nelle zone boschive, hanno potuto ricorrere a questi ingredienti naturali (funghi, licheni ed erbe spontanee) hanno visto ridursi di molto il rischio di malnutrizione cronica, che era invece dominante in altre parti della Bosnia-Erzegovina, come Sarajevo, dove la maggior parte dei residenti era di fatto denutrita.
In questo modo l’antica conoscenza potremmo dire “bio-culturale” legata all'autosufficienza alimentare aveva finito per svolgere un ruolo importante nell'aumentare le possibilità di sopravvivenza individuale in tempi di scarsità materiale generale.
🎪 Il primo consiglio che ti do è quello di ascoltare “Blokada, Sarajevo, la civiltà sotto assedio”, un podcast dedicato al lungo e feroce assedio che Sarajevo ha subito fra il 1992 e il 1996. Un podcast di Bottega Errante edizioni, che racconta come gli assedianti cercavano di distruggere una comunità multietnica coesa e integrata. Naturalmente ti raccomando di ascoltare tutte le puntate, ma sono particolarmente affezionata alla numero 4, intitolata “Inat”, una parola che potrebbe tradursi come “testardo, cocciuto”. Non riesco a trovare una traduzione in italiano che renda con una parola la stessa intenzione, ma per qualche motivo a me risuona simile all’espressione “cazzimma” (anche se di sicuro i lettori campani mi potranno correggere su questo punto).
🌎 Nei suoi Dispacci musicali, puntata #100, Samantha Colombo, raccontando del suo viaggio in Bosnia Erzegovina, ha ripercorso alcuni momenti in cui “la musica ha raccontato la storia e la realtà da una prospettiva estremamente umana”. Nella Sarajevo assediata, la cultura diventa arma di resistenza e allo stesso tempo espressione di esistenza. Questa estate durante il suo viaggio e il mio, le nostre strade si sono intrecciate diverse volte sul suolo bosniaco senza mai incontrarsi, ci rincorrevamo virtualmente, Samantha ed io.
📘 Sapevi che sono stati realizzati dei libri di cucina in tempo di guerra? I più conosciuti sono quelli risalenti alla Seconda Guerra Mondiale, che fanno riferimento a ricette con ingredienti di recupero e sostituzioni con i cosiddetti “succedanei”, ma ci sono anche ricettari ideati proprio durante l’assedio di Sarajevo, in cui tra gli ingredienti utilizzati c’erano anche gli alimenti inviati con gli aiuti umanitari, come la carne in scatola Icar, prodotta in Italia (vedi foto sopra). Qui e qui alcuni esempi.
🌿 A proposito di risorse alimentari indispensabili, a Sarajevo con gli aiuti umanitari sono stati portati migliaia di semi che sono serviti alla popolazione per trasformare la città in un grande orto urbano, ogni pezzetto di terra era sfruttato per coltivare piante e verdure: balconi, parchi pubblici e persino cimiteri. Ti suggerisco il numero 63 della newsletter Braccia Rubate che propone un interessante approfondimento sui semi e sul loro valore.
📰 MOLD Magazine, una rivista dedicata al design racconta in questo articolo com’era il “design improvvisato” di oggetti di uso quotidiano nella Sarajevo sotto assedio.
📹 E infine, a forza di cercare nei meandri del web, sono riuscita a trovare una raccolta di video del popolarissimo programma televisivo sulla Bosnia presentato da Sulejman Redžić: “Prirodna baština BiH”, traducibile con "Patrimonio naturale della Bosnia Erzegovina”, che gli è valso, parallelamente a una ricca carriera scientifica, una certa popolarità e anche una sorta di carisma sociale, perché ha fatto del racconto sulla Bosnia naturale da proteggere una questione di attivismo ambientale e politico.
✝️ Ti lascio qui un articolo che spiega come il conto dei decessi in guerra sia sempre qualche cosa di assai complesso e soprattutto con conseguenze a lungo termine.
💣 F*CK WAR, l’arte (del rifiuto) della guerra. Si tratta di uno dei progetti di CHEAP FESTIVAL, un’associazione di public art fondata da sei donne a Bologna nel 2013. Un collettivo che si esprime attraverso l’affissione di manifesti nelle vecchie insegne cartellonistiche in giro per la città di Bologna. Tutti i progetti sono davvero di impatto. Questo però, contro ogni tipo di guerra, lo trovo particolarmente calzante, soprattutto visti gli avvenimenti attuali.
Questo numero di Fungotropìa finisce qui. Ne approfitto in coda per ringraziare Giorgia Spadoni per la consulenza sulla pronuncia dei nomi bosniaci nell’audio di questa puntata. Spero di non aver fatto troppi errori.
E tu, sapevi già qualcosa riguardo le risorse alimentari in guerra? E sul ruolo fondamentale di funghi e licheni per ridurre il rischio di malnutrizione? Conosci di storie simili anche in altre parti del mondo? Se sì, fammelo sapere! Il prossimo numero arriva lunedì 4 novembre. Di cosa parlerà? Ancora non lo so.
Ti aspetto!
Camilla
Spero che questo numero ti sia piaciuto e che questo formato sia per te leggibile e interessante. Hai commenti o suggerimenti? Scrivimi pure, ti leggo! E se ti è piaciuta condividi Fungotropìa con chi vuoi.
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Mi chiamo Camilla Mazzanti, non sono una botanica né una micologa ma solo una persona curiosa. Questa è Fungotropìa.
Le illustrazioni sono di Alice Fadda.
La conoscenza e l’utilizzo di piante auctoctone selvatiche o semi-selvatiche, come il tarassaco (dente di leone) ad esempio, contribuì a garantire mezzi di sopravvivenza alla popolazione.
Purtroppo, nel gennaio del 2013 Redžić è stato trovato morto dopo 15 giorni dalla sua scomparsa in una foresta vicino a Sarajevo, nel canyon del fiume Miljacka, al culmine della sua carriera scientifica. Le circostanze della sua morte sono incerte e c’è persino chi sostiene possano anche essere legate a motivi politici.
Durante l'esistenza della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia la farina era principalmente oggetto di produzione industriale, tuttavia, in tempi di carestia le persone hanno sviluppato strategie per auto-produrla. I vecchi mulini ad acqua furono ristrutturati o ne furono costruiti di nuovi e lì veniva macinato quasi tutto ciò che poteva essere trasformato in farina. Emir Suljagić, un sopravvissuto di Srebrenica descrive così la situazione: "Dopo aver esaurito tutte le riserve di farina bianca, ci siamo subito dedicati alla macinazione di quella “nera” [integrale], poi la farina di mais e infine l'avena, che non poteva essere macinata a sufficienza ma che era accettabile, tranne per il fatto che era amara e faceva male alla gola; nei mulini ad acqua si macinavano anche le pannocchie e gli amenti dei noccioli."
È il più comune lichene utilizzato in erboristeria come calmante per la tosse nonostante il suo sapore decisamente amaro. Soprattutto in passato veniva utilizzato al posto dell'amido nella preparazione del cioccolato. Viene impiegato in farmacia come additivo ai dentifrici e alle soluzioni detergenti intime.
Bellissima newsletter Camilla!!! Sono stata anche io a Sarajevo e ho rivisto le stesse foto che anche io avevo fatto e soprattutto la stessa sensazione di multiculturalità. Ancora complimenti
Ho letto lo studio di Redzic e ho visto che nell'elenco dei funghi mangiati c'è anche il Coprinus atramentarius che è un fungo tossico se mangiato insieme a sostanze alcoliche (effetto Antabuse); la cosa mi ha sorpreso, poi però l'ho collegata al fatto che la quasi totalità degli intervistati è di confessione musulmana...è un punto di vista interessante!